Dedico a coloro che sono a Cariati nei mesi estivi, ai turisti e ai ritornati, questo testo che ho scritto nel 2010; la storia e il compendio del mio racconto del mare di tanti anni. A.S.
(Da Il Quotidiano della Calabria del 16 maggio 2010)
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Mi piace guardare il mare, quando l’aurora accende il sole nel cielo e gli regala la sua luce. Oltre il momento spettacolare, al quale partecipo dalla finestra del mio studio, c’è il pensiero della vita, che, proprio il mare, rinnova e interpreta con il suo respiro, l’immensità, il continuo movimento.
Il mare, per me, è stato a lungo un mistero indecifrabile. Un limite, nonostante, fin da piccolissima, abbia abitato a poche decine di metri dalle sue rive. Per eccesso di protezione dai pericoli del moto ondoso, o, forse, per l’atavico timore dell’elemento, che caratterizza le famiglie dalla profonda radice contadina, come la mia, sarebbe stato impossibile avvicinarmi liberamente, come, forse, avrei voluto; mi accontentavo di qualche raro bagno, sempre guardata a vista.
A brevissima distanza, tanti coetanei, figli di marinari, che avevano la casa al borgo, dilatata sul sottostante arenile (u scaru), trascorrevano le giornate con l’azzurro negli occhi e i piedi sempre nudi nella sabbia, giocando tra le barche ormeggiate, nell’attesa del rientro di quelle dei padri, con la speranza di vederle cariche.
Solo molto più tardi avrei conosciuto la comunità del mare, con caratteri e consuetudini che non appartengono solo a quella del mio paese, Cariati in provincia di Cosenza.
Di quel tempo contraddistinto, per quel che mi riguarda, da una diaspora familiare, ricordo un curioso episodio, presagio, è il caso di dirlo, degli sviluppi futuri. Un treno, un padre e una madre (i miei) con la loro nidiata di bambini; il percorso è in discesa da una città industriale del Nord Italia, nella prima, attesa vacanza nel luogo d’origine. L’alba sui binari della tratta adriatica, dopo ore di viaggio notturno, è accolta con un grido: “Il mare, il mare!”, e il movimento di un risveglio repentino e confuso, per schiacciare, al finestrino di quel ritorno, cinque nasini incantati e felici.
LA MERAVIGLIA DELLO SGUARDO
Ho sempre conservato uno sguardo pieno di stupore di fronte al mare e al suo mondo. Specie quando la scrittura e l’impegno hanno cominciato a restituirmeli.
Sono passati più di vent’anni, eppure “L’uomo e il mare”, una sorta di compendio, in flash, di tradizioni, tecniche lavorative, problemi del presente, storie di vita, resta attuale e, soprattutto, importante perché segna il primo incontro, trasformato in prodotto giornalistico.
Poi, ad avvicinarmi di più ai marinari del mio paese, sono state le istanze del sociale, quando l’attesa per il completamento dell’impianto portuale, nella seconda metà degli anni Novanta dello scorso secolo, si è fatta insostenibile. Mi sono fatta portavoce della necessità di svolgere l’attività in sicurezza per persone, natanti e mistéri (l’arsenale delle reti, che danno il nome ad antiche e nuove tecniche di pesca), oltre che dell’esigenza di portare avanti le piccole imprese e, soprattutto, le famiglie. Il mestiere spesso duro, fondato sull’assenza di molte ore, o di giorni, da casa, e condizionato dagli agenti atmosferici e periodi non produttivi, l’ho compreso sempre molto bene; a parte i tre anni d’emigrazione al Nord, non mi sono mai alzata una mattina, festività e domenica comprese, trovando in casa mio padre Giuseppe, agricoltore: era già nei suoi campi prima delle quattro. Il grande valore del lavoro, unisce terra e mare in un’unica identità, consentendo alle comunità di esistere e progredire.
Sono stati, tuttavia, gli incontri e le storie, a farmi entrare, soprattutto mentalmente, nella comunità marinara, per scoprire il senso di un sistema di vita e di lavoro sul quale, chi ne fa parte, non si pone domande; e per delineare le mille storie di una storia più grande, attraverso la costruzione narrativa di una Calabria afflitta da emergenze perenni, eppure ricca di fascino.
Negli ultimi anni, anche attraverso le immagini etnografiche, trasformate in pagine di suggestivo racconto nutrito al rapporto d’amicizia e alla ricerca condivisa con i suoi protagonisti.
STORIE DI PERSONE, STORIE DI FAMIGLIE
La Calabria offre tantissime storie. Basta saperle leggere attraverso la fonte della “memoria vivente”, o quella, visiva, di quei documenti sociali che sono le fotografie, spesso ingiallite, conservate nei cassetti delle famiglie. Quante ne ho ricostruite, percorrendo l’intero territorio regionale e il suo “doppio”, nei luoghi definiti, fino a poco tempo fa, di migrazione, e oggi, a tutti gli effetti, di stabile residenza. Nella comunità marinara a me più vicina, ho scoperto storie curiose e sorprendenti, quando non estremamente difficili, popolate da una umanità variegata, avente come cardine il valore supremo della famiglia.
Storie di uomini e ciurme, oscillanti, ad esempio, tra il saggio, il rissoso, l’intraprendente fino a spingersi in alto mare o nel Golfo di Taranto con la barca a vela o a remi, e il pauroso delle lunghe distanze nell’acqua, ma pronti, tuttavia, ad attribuire autorità e ruolo di guida alla figura carismatica del capobarca, che era, ovviamente, anche sinonimo di capofamiglia nei gruppi tradizionali, indicati con i soprannomi dei Cutrì, dei Feroti, dei Gnazzi, dei Merichi, dei Midji, dei Panazzi, dei Pignoli, dei Tranquillo, dei Zagarogni, dei Zotti e altri, per i quali “il pescatore senza tanti figli non è un pescatore”.
Tra le tante, la storia di una sorta di “Santiago” alla Hemingway, Leonardo i Cutrì che amava il mare al punto da non riuscire a distaccarsene nemmeno nei giorni festivi, quando, dal borgo, si scorgeva sulla barca solitaria, fra le onde; o di Ciccio iru Feroti, che traeva il soprannome dalla grande forza fisica con cui aveva liberato ” u scaru” da un enorme macigno; o Dioràtu Critelli, entrato nell’immaginario mitico di figli e nipoti, per aver salvato, da eroe della Grande Guerra, la bandiera italiana sotto il fuoco nemico. E le tragedie del mare.
Anche storie di donne coraggiose, come Caterina i Ngueta: dopo aver scrutato invano l’orizzonte, aveva capito che il maltempo aveva preso la barca del suo Nicola e l’aveva portata a Torretta di Crucoli, dove menava il vento; era corsa a prendere il treno e l’aveva trovata stracquata su quella riva crotonese, dove il marito giaceva senza forze per aver salvato da morte sicura uno della ciurma. Donne assennate, erano quelle dei marinari, e abili tessitrici, non solo di coperte al telaio, ma anche di reti di solidarietà, tra le stesse famiglie che portavano avanti in assenza, a volte per giorni, di padri, fratelli, e mariti, impegnati nell’arte del mare; un’arte di cui, in un determinato momento storico, sono diventate dirette esecutrici, come Jangela a Scalisa, Immacolata i Panazzi, Maria iru Lobbu, fino a Maria i Génula, marinara e ricattera, cioè commerciante di pesce, capace di difendere il suo onore a suon di bastonate, nonché pescatrice leggendaria nel ricordo della figlia Peppina.
E poi ci sono le storie dei figli dei marinari; Linarduzzo, della famiglia dei Geganti, al lavoro partecipava a terra, preparando il cinciolo, guardando per ore l’allestimento delle reti in spiaggia, vero laboratorio del mare, o lo spettacolo delle barche allontanarsi al tramonto, per diventare sempre più piccole, nell’orizzonte che era il sogno, la libertà oltre il borgo e il suo confine. Il battesimo nel mare era, invece, il passaggio temporale all’età adulta, con il contributo più concreto da dare all’impresa di famiglia.
MIGRAZIONI, MOTORIZZAZIONE E TURISMO BALNEARE,
I FATTORI DI CAMBIAMENTO
Il tempo è fattore decisivo per la gente del mare. In senso meteorologico, i vecchi marinari lo “sanno”, cioè lo conoscono per quanto influisce sulle comunità delle rive; a Leonardo i Ndoni i Cicci, stimatissimo capobarca sulla San Leonardo, bastava portarsi sull’arenile e guardare l’aria, verso il mare: “Guagnù assuma una nuvulidda, ora accende come un furfareddu e subito squagghia” – diceva ai figli, che, col temporale imminente, dovevano subito ritirare la menaide già calata. In senso storico, di successione di eventi, il tempo, dopo secoli di piccola pesca, con piccole barche e piccoli attrezzi, sempre uguali a se stessi, ha, invece, recato una mutazione significativa.
In coincidenza con la discesa a mare e lo sdoppiamento dei paesi, dopo l’Unità d’Italia e la realizzazione della bonifica delle coste ci fu, infatti, una migrazione di specialisti della pesca provenienti dalla costiera amalfitana, da dove sono poi arrivati anche i costruttori di barche; seguivano la scia tracciata, anche in senso letterale, da marinai-trasportatori di Atrani, Maiori, Vettica…, esperti nell’arte della navigazione che commerciavano in stoffe e granaglie con i nostri centri costieri, dai quali tornavano carichi dei preziosi manufatti dei maestri cretai di Cariati o di fichi calabresi da smerciare nel porto di Marsiglia, dove, dicono gli studiosi, erano rinomati più di quelli di Smirne o di Provenza. Così, in tempi di strade impraticabili, giunsero in quel di Cariati, seguendo la via del mare, i Rispoli (Feroti), i Russo (Gnazzi e Merichi), i Gentile (Panazzi), e poi i Martino, i Critelli, i Graziano, i Santoro… i cui eredi, fieri di quest’origine, si sono moltiplicati, ed oggi si dedicano ad altre attività, senza, tuttavia, spezzare il legame con il mare.
Di altri cambiamenti, quasi epocali per la storia che raccontiamo, mi hanno detto in tanti, in paese. L’architetto Antonio Russo mi ha parlato di suo nonno Gnazziu, pronipote di un esperto navigatore di Atrani; capofamiglia e padrone di più barche, negli anni Trenta, sempre dello scorso secolo, Gnazziu era stato il sindaco-pescatore della comunità. Dalla sua storia, che somiglia a quella di padron Ndoni dei Malavoglia, ho tratto una preoccupazione, profetica, certamente, di quello che avrebbe comportato il fenomeno dell’emigrazione, quando “si è aperta” la Germania, dalla fine degli anni Cinquanta: “Totonnù – diceva al nipote – il lavoro del marinaro finisce se la famiglia si sparpaglia”.
Zia Matalena Curia, figlia di quella Scalisa che andava a mmare, aveva già 94 anni, quando mi ha descritto il mare della sua gioventù: negli anni Quaranta (del Novecento), una tabella del comune divideva la spiaggia in due; lontane dagli uomini, le donne entravano in acqua “per salute”, con sottane che diventavano campane enormi. Poche ragazze forestiere prendevano i bagni. Tutto semplice e quasi monotono su quella spiaggia, fino agli anni Sessanta: “E’ venuta la fine del mondo le donne hanno cominciato sempre più a denudarsi, è venuto lo scandalo, si sono persi il rispetto e l’onestità”. Il boom del turismo balneare, che ha cambiato il costume e la modalità d’uso della spiaggia.
Infine Giorgio Santoro, ultimo di una delle principali famiglie di tradizione, rivive ogni volta l’emozione “che non si può raccontare”, della meravigliosa avventura di una data storica: il 18 marzo 1950, in cui, fra la folla festante, è stato varato il primo “motore”, della marineria, di proprietà del padre Raffaele, titolare di un’impresa di pesca che dava lavoro a molti operai: “Dal cantiere lo abbiamo tirato per 300 metri, sui falanchi, con i sciarti… abbiamo fatto quintali di crustuli e fusiddi, per festeggiare”. La motorizzazione delle barche, ha sconvolto il torpore della piccola pesca praticata sottocosta, offrendo nuovi mari e migliori possibilità al pescare.
Oggi il presente è di una categoria che si è rinnovata con la presenza di giovani addetti, decisi ad investire sul mare energie e speranze, e riuniti in Società Cooperativa collegata a Lega Pesca. Con loro, e con l’importante associazione di cooperative, condivido progetti per la valorizzazione dell’identità marinara, che ha avuto momenti felicissimi nell’evento “Sguardi sullo Jonio. Incontro con le storie e la gente del mare”, del settembre 2009, e nel racconto fotografico “Famiglie e barche della comunità marinara di Cariati”, che ho curato con passione infinita, consapevole dell’importanza di sollecitare la coscienza civile, e di far comprendere alle nuove generazioni che società non si fonda su quello che in fretta svanisce, ma su solide basi e tradizioni di lavoro, familiari e di una comunità. La mostra, tuttora in corso, nel Salone polivalente del porto, e inaugurata il 24 aprile, è stata la grande festa della gente del mare.
LA DIMENSIONE MEDITERRANEA DELL’INCONTRO
Gente di mare. Partecipando, presso il Museo della Marineria Washington Patrignani di Pesaro, alla ricerca “L’universo femminile nella società marinara”, condotta con il gruppo di lavoro della professoressa Maria Lucia De Nicolò dell’Università di Bologna, ho avuto la conferma che quella marinara è identità calabrese e meridionale, certo, ma soprattutto mediterranea. Al di là degli adattamenti e dei “fatti d’origine e di storia” essa costituisce la più ampia comunità del Mare Nostrum, contrassegnata da un modo di concepire la vita col riferimento costante del mare, e capace di riconoscersi in riti, tradizioni, consuetudini e nella capacità d’incontro.
A questa dimensione tipicamente mediterranea, fatta di culture e umanità, attribuisco il valore più alto del mio racconto della Calabria degli ultimi anni. Mi rimane la paura del mare, della sua potenza e della sua profondità, che m’impedisce d’allontanarmi quando faccio il bagno o di avvicinarmi col buio della sera; una sfida aperta, se vogliamo, visto che lo amo infinitamente attraverso le sue storie e lo sguardo che gli rivolgo, incrociando quello della sua gente, capace, tuttavia, di rassicurarmi, come fa, con affetto paterno, il decano della marineria cariatese, Leonardo Zolli, quando mi dice: “In mare non è mai notte”; e lo spiega così: “C’è la luna che dà sempre un chiarore alla notte e ti fa pescare; a terra non è niente, non la trovi la porta di casa se i lampioni sono spenti… la luna è il sole del mare”.
Assunta Scorpiniti